Julio Olembe conobbe la sua prima ragazza cinese nel 1996. Dopo cinque anni, quando ormai pensavano al matrimonio, la famiglia di lei pose il veto: la loro figlia non avrebbe mai sposato un africano, per quanto determinato a farsi una vita a Guangzhou. Julio, che viene dal Congo, si aspettava un epilogo simile anche con la seconda fidanzata. Oggi sono invece marito e moglie, con due bambine che parlano mandarino, inglese e cantonese. Una delle poche — ma in crescita — coppie miste nate in quella che è stata ribattezzata la Chocolate City all'interno dell'ex città di Canton.

Nella capitale del Guangdong, il cuore delle esportazioni cinesi, gli immigrati africani registrati sono ormai 20mila. Numeri che non raggiungono neanche Pechino e Shanghai messe insieme. Contando anche gli irregolari, nell'intera regione la cifra va moltiplicata per cinque. Qualcuno insegna inglese o studia, altri gestiscono piccole attività. Il resto è un esercito di commercianti e intermediari: acquistano all'ingrosso il solito assortimento di griffe false, telefonini, giocattoli e tutto quel che offre il made in China a prezzi irrisori, e poi lo rivendono nei rispettivi Paesi di origine.

Fino a pochi anni fa, Cina e Africa erano due mondi a parte: la reciproca ignoranza dell'altro ha prodotto stereotipi duri a morire. Gli africani «sono meno sviluppati e non hanno imparato a controllare i loro istinti», studiavano i bambini cinesi, come ha scritto Jung Chang nel suo romanzo Cigni selvatici. I neri sono ancora oggi oggetto di enorme curiosità: capita che la gente li fotografi, o che li tocchi e poi controlli se è rimasta una traccia sulle dita. L'ostilità permane, anche perché nella superstiziosa Cina il nero è tradizionalmente associato alla sfortuna. Molti tassisti, a Guangzhou, si rifiutano di accettare passeggeri africani. Ma il colore dei soldi è più forte dei pregiudizi, a giudicare dalla crescita esponenziale dell'interscambio tra Cina e Africa. La prima mette le mani sulle risorse naturali, l'altra importa i prodotti finiti. Un giro d'affari da oltre 100 miliardi di dollari, che aumenta a ritmi del 30-40 per cento all'anno, ormai secondo solo agli scambi commerciali tra Cina e Stati Uniti. Nel 2008 sono iniziati i primi voli diretti da Nairobi a Guangzhou. I circa 10 chilometri quadrati che si sviluppano attorno a enormi mercati come quello di Canaan, il cuore della Chocolate City, sono ormai un pezzo di Nigeria, Mali e Congo.

Ottenere un visto per la Cina, grazie alla retorica dell'«interesse comune» adottata da Pechino, è più facile rispetto a un pass per l'Europa o gli Usa. Il problema è rinnovarlo. Le autorità cinesi pongono ogni genere di ostacolo, spesso senza troppi criteri logici. Gli immigrati africani si rivolgono così a loschi intermediari, agenzie specializzate nel produrre la documentazione necessaria a prezzi salati e secondo le nazionalità: un permesso di soggiorno annuale per un nigeriano — la comunità più nutrita, nonché la più associata alla criminalità per stessa ammissione del suo ambasciatore — può costare oltre 4mila euro. Poliziotti e funzionari, si lamentano gli immigrati, chiedono inoltre mazzette per chiudere un occhio. Un primo giro di vite è stato applicato alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, quando rinnovare il visto era quasi impossibile. Anche trovare lavoro in aree che non riguardino il commercio è un'impresa.

La frustrazione è esplosa nel luglio dell'anno scorso, quando un nigeriano è morto lanciandosi da una finestra, per scappare da una retata. Centinaia di africani hanno protestato nelle strade di Guangzhou, sostenendo di essere «trattati come animali». Non è stato il primo episodio di tensione: già nel 1989, a Nanchino, gli universitari locali — risentiti per le agevolazioni concesse agli studenti africani in nome della solidarietà terzomondista — imbastirono una caccia al nero che fu poi repressa dalle forze dell'ordine. A Guangzhou, africani e cinesi faticano a legare. Gli immigrati fanno comunità tra loro, magari divisi tra anglofoni e francofoni; le amicizie con la gente del luogo e le coppie miste sono rare. Ma si intravedono segnali di integrazione: «Nei mercati — spiega Adams Bonomo, professore di linguistica e studi africani all'Università di Hong Kong — ci si accorda contrattando con una calcolatrice e poche parole in comune. Nei ristoranti africani di Chocolate City, poi, la clientela cinese sta aumentando». Anche la religione, con il cristianesimo in crescita tra i cinesi, può fare da ponte: alla domenica, la cattedrale di Guangzhou è un punto di riferimento per la comunità di colore.

La crescente presenza africana mette i cinesi di fronte alla questione della razza, introducendo una variabile nuova nell'omogenea società al 90 per cento di etnia Han. Celebre, l'anno scorso, è stato il caso di Lou Jing, una diciottenne di madre cinese e padre africano (mai conosciuto). La ragazza, partecipando a un programma televisivo per giovani talenti, era vista quasi come un'aliena: l'idea che la «perla nera», come veniva chiamata, parlasse un cinese da madrelingua era una novità assoluta per il pubblico e la blogosfera si è riempita di insulti razzisti.

Tuttavia le barriere psicologiche si stanno abbassando. Tra gli immigrati africani in Cina si moltiplicano gli esempi di chi riesce a farsi strada. Il tg internazionale della Cctv ha da poco introdotto tra i suoi conduttori Vimbayi Kajese, una bellezza dello Zimbabwe. Il camerunense Francis Tchiégué, star televisiva in patria, appare regolarmente anche alla tv cinese, parlando un eccellente mandarino. Una donna ivoriana in carriera, Jeannine Ollo-Sevat, guida una società di consulenza che fa da collegamento tra investitori cinesi e businessmen africani.
Le difficoltà burocratiche, tuttavia, rimangono. E continuano a colpire gli africani più degli altri. «Quest'anno all'università di Guangzhou il numero degli studenti di colore è crollato — racconta Michael Chang, un ricercatore americano dell'ateneo — e la polizia esegue controlli a tappeto». Se qualcosa è cambiato nei criteri delle autorità locali, non è stato annunciato. Ma gli immigrati di Chocolate City hanno un'idea: «A novembre — spiega Chang — Guangzhou ospita i Giochi asiatici. Tutti pensano che la città voglia dare una buona immagine di sé, e teme che troppi africani la rovinino».

 

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